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LE CONOSCENZE DI OGGI PER PREPARARE IL FUTURO

Gli ultimi decenni di studi e di cura delle persone con demenza hanno portato preziosi contributi di conoscenza.Si sono affrontate tematiche prima trascurate, come l’epidemiologia, i criteri diagnostici, i farmaci, gli stili di vita e i fattori di rischio vascolare, i centri diurni Alzheimer, e non ultimo per importanza il dolore nella demenza. Vediamo alcuni di questi argomenti, completando la trattazione sul prossimo numero di Promemoria.

L’epidemiologia.
Il costante incremento dell’incidenza della malattia di Alzheimer e delle altre demenze è messo in discussione da uno studio che, utilizzando due gruppi del Rotterdam Study, dimostra una minore incidenza di malattia nel gruppo del 2000. Questo dato, anche se statisticamente non significativo, si associa, sempre nel gruppo più recente, a una minore atrofia cerebrale alla risonanza magnetica e a segni meno evidenti di malattia dei piccoli vasi. La differenza di incidenza può essere attribuita al maggiore uso di statine e antiaggreganti e alla maggiore scolarità che caratterizza il gruppo del 2000. Altri due studi arrivano a conclusioni analoghe. Sembra quindi che si possa ipotizzare, per gli anni a venire, un calo dei nuovi casi di demenza, a parità di incremento della prevalenza che risente del continuo aumento del numero di anziani. Oltre al dato epidemiologico, è significativo il fatto che un migliore controllo dei fattori di rischio vascolare e quindi un intervento su alcune condizioni morbose e certi stili di vita possa rivelarsi un efficace strumento per contrastare la malattia. Un secondo aspetto epidemiologico è quello relativo alla demenza come causa di morte. Mentre le altre principali cause di morte (ictus, cancro della prostata e della mammella, malattie di cuore e HIV) sono tutte in calo nel periodo esaminato, 2000-2008, la malattia di Alzheimer, che attualmente è la quinta causa di morte negli Stati Uniti, è in drammatico aumento (+66%). Tra le cause di questo andamento in controtendenza una delle più importanti, se non la principale, sono gli scarsi finanziamenti per la ricerca nel settore delle demenze.

I criteri diagnostici e il ruolo dei biomarkers.
I criteri diagnostici utilizzati dal 1984 hanno mostrato con il passare degli anni i loro limiti e sono stati oggetto di revisione e aggiornamento da parte di un gruppo di esperti europeo e di un gruppo americano sotto l’egida del National Institute on Aging e ell’Alzheimer’s Association (criteri NIA-AA). Gli aspetti critici dei criteri originali che ne hanno resa necessaria una revi sionesono:
a) il fatto che la patologia della malattia di Alzheimer sia un continuum di condizioni cliniche che vanno dalla normalità, al deterioramento cognitivo lieve, alla demenza;
b) la indisponibilità, all’epoca, di strumenti diagnostici come la risonanza magnetica, la PET, le indagini liquorali (CSF);
c) ritenere l’amnesia come deficit cognitivo primario nella malattia di Alzheimer, mentre l’esperienza ha dimostrato che l’esordio può essere non a carico della memoria (atrofia corticale posteriore, afasia primaria progressiva logopenica);
d) le scarse conoscenze relative alle demenze non-Alzheimer (malattia da corpi di Lewy, demenza vascolare, demenza frontotemporale, afasia progressiva); e) l’assenza di informazioni sulla genetica della malattia di Alzheimer (gli studi successivi hanno dimostrato come tre diverse mutazioni geniche possano determinare una forma presenile a trasmissione autosomica dominante);
f) i limiti di età (tra 40 e 90 anni) sono stati superati dalle evidenze: i rari casi di malattia di Alzheimer prima dei 40 anni e i numerosi casi dopo i 90 hanno le stesse alterazioni patologiche degli altri. Senza addentrarci nella descrizione dei nuovi criteri diagnostici, va detto che un ruolo sostanziale viene assegnato ai cosiddetti biomarcatori. Essi sono parametri (fisiologici, biochimici, anatomici) che possono essere misurati in vivo e che riflettono specifici aspetti dei processi fisiopatologici legati alla malattia. L’uso di questi indicatori può consentire di fare diagnosi di malattia di Alzheimer anche nella fase pre-clinica, cioè in quell’arco di tempo durante il quale il danno neuropatologico esiste già, ma l’espressione clinica è assente o modestissima, e potere intervenire con farmaci disease-modifying. Nel caso di malattia di Alzheimer i biomarcatori più studiati sono: proteine Aß42, tau e phospho tau del liquor (CSF); PET con fluordesossiglucosio (FDG) o ligandi dell’ Aß42; MRI volumetrica. Questi cinque biomarcatori si possono raggruppare in due categorie:

1) biomarcatori che sono espressione di accumulo di Aß42 (accumulo di tracciante alla PET con ligandi, bassi valori liquorali di Aß42);
2) biomarcatori di degenerazione neuronale (alti valori liquorali di tau e phosphotau; ridotto metabolismo alla PET-FDG nelle regioni temporoparietali; atrofia dei lobi temporali e parietali alla MRI). L’utilizzo dei biomarcatori nella diagnosi di Malattia di Alzheimer è per ora limitato alla ricerca. I biomarcatori sono misure continue, e quindi richiedono precisi valori di riferimento, necessari perché si possa utilizzare l’etichetta diagnostica di “positivo” o “negativo”. Attualmente la standardizzazione dei biomarcatori liquorali è in una fase più avanzata rispetto a quelli di neuroimaging. Infine, il gruppo europeo sottolinea l’importanza diagnostica di un deficit di memoria episodica che, alla valutazione neuropsicologica, si configuri come amnesia di tipo ippocampale.

I farmaci.
L’assenza di una cura risolutiva o preventiva della malattia di Alzheimer, in grado di ritardarne l’esordio o gli effetti della malattia, è un motivo di preoccupazione e nello stesso tempo un incentivo per la ricerca farmaceutica. I farmaci in uso dalla metà degli anni ’90 nella malattia di Alzheimer sono i tre inibitori dell’acetilcolinesterasi (AChEI): donepezil, rivastigmina, galantamina. Questi farmaci, indicati nelle fasi lieve-moderata della malattia, hanno dimostrato di alleviare i sintomi cognitivi, migliorando in molti casi il livello funzionale del paziente e riducendo il carico assistenziale, senza ridurre il decorso della malattia. Un quarto farmaco, la memantina, agisce sul sistema glutammatergico, come antagonista dei recettori del glutammato, il più potente neurotrasmettiore eccitatorio del sistema nervoso centrale, ed è indicata nella fase moderata-severa. Oltre agli AChEI e alla memantina, altri farmaci sono stati sperimentati contro la malattia, per ora senza successo. Questi composti hanno generalmente come bersaglio il peptide Aß, sia direttamente cercando di neutralizzarlo con anticorpi specifici (Solanezumab), sia indirettamente agendo sulle secretasi (Semagagestat), oppure cercando di aumentare l’eliminazione del peptide (Bapineuzumab). I risultati dei più recenti studi clinici non sono stati soddisfacenti. Gli studi di fase 3 su uno dei principi attivi più promettenti, il Bapineuzumab, anticorpo monoclonale contro il peptide Aß, sono stati recentemente (agosto 2012) interrotti. L’utilizzo di questo farmaco nei pazienti con malattia di Alzheimer lieve-moderata, portatori o non portatori del gene Apoß4, ha dimostrato di non migliorare le performances cognitivo e/o unzionali. Quanto al Solanezumab 2 esperimenti clinici di fase 3 hanno dimostrato che il farmaco non è in grado di soddisfare gli esiti finali primari cognitivi e funzionali nei malati di Alzheimer. Solo nei pazienti con Alzheimer lieve (MMSE tra 26 e 20) il Solanezumab ha rallentato il declino cognitivo. Per quel che riguarda gli inibitori delle secretasi uno studio di fase 2 sull’Avagacestat ha mostrato che il farmaco è abba stanza ben tollerato a basse dosi (25-50 mg) nell’Alzheimer lieve moderato, mal tollerato con tendenza al peggioramento cognitivo a dosi più alte. Precedenti studi con altri inibitori delle secretasi (Tarenflurbil) si erano conclusi con esito negativo. La malattia di Alzheimer ha una eziologia multifattoriale e i meccanismi patogenetici non sono ancora chiari. In futuro si dovrà forse arrivare a una “stratificazione dei pazienti a seconda dello stadio patologico, del background genetico e del profilo biologico personale, che ermetterà una personalizzazione dei farmaci da impiegare”. Stili di vita e fattori di rischio vascolare. Molti studi hanno dimostrato la correlazione tra fattori di rischio vascolare e malattia di Alzheimer, e le connessioni tra l’ipotesi della cascata amiloide e quella vascolare nel determinare la malattia di Alzheimer. I rapporti tra stili di vita, alcune condizioni mediche e demenza sono stati valutati in numerosi lavori, con risultati interessanti. La possibilità di ridurre il rischio di demenza intervenendo su alcune malattie (ipertensione, stroke, diabete, ipercolesterolemia, obesità) e su alcuni stili di vita (fumo, attività fisica e cognitiva, sedentarismo) apre scenari interessanti , con risvolti pratici immediati. Intervenire su fattori di rischio tradizionalmente visti esclusivamente vascolari, produce effetti protettivi anche sulla malattia di Alzheimer. Barnes e Yaffe hanno dimostrato che la correzione di alcuni fattori di rischio (diabete, ipertensione e obesità di mezza età, fumo, depressione, inattività fisica e mentale) potrebbe portare a una significativa riduzione del numero dei casi di Alzheimer nel mondo, con un risparmio in termini economici oltre che, ovviamente, con un guadagno in termini di salute. I Centri Diurni Alzheimer. I Centri Diurni Integrati per persone con demenza (cosiddetti Centri Diurni Alzheimer, CDA) sono servizi dotati di strutture, organizzazione, progettualità specifiche per malati di Alzheimer e altre demenze. I CDA si stanno rivelando servizi preziosi. In uno scenario nazionale senza politiche per la demenza, frammentato da politiche regionali in genere poco attente alle persone con demenza, con servizi domiciliari che neppure si avvicinano a soddisfare i bisogni delle famiglie, i CDA sono spesso in grado di raggiungere una serie di obiettivi fondamentali per la qualità di vita del malato e della sua famiglia. La letteratura scientifica relativa ai CDA afferma il loro ruolo nel rallentare il declino cognitivo, nel ritarda l’istituzionalizzazione, ridurre i disturbi comportamentali, ridurre lo stress del caregiver. L’incremento dall’8% al 24,9% tra il 1999 e il 2007 del numero di persone con demenza che accedono ai Centri Diurni, così come rileva l’analisi AIMA-CENSIS del 2007, è significativo dell’efficacia di questi servizi, che già nell’analisi del 1999 venivano segnalati come uno degli interventi più ambiti dalle famiglie. Il dolore, la demenza avanzata, le cure di fine vita. Che le persone con demenza possano provare dolore, al pari delle persone cognitivamente integre, è un dato intuitivo. Tuttavia sono numerosi i lavori che documentano l’inadeguato trattamento del dolore nelle persone con demenza: per scarsa sensibilità degli operatori, difficoltà da parte del malato a comunicare il sintomo, scarso uso delle scale osservazionali che in molti casi sono gli unici strumenti da usare per rilevare il dolore. Il dolore risulta sotto-trattato nelle persone con demenza, in particolare nella fase avanzata quando riconoscere il sintomo è più difficile, quando il paziente è più isolato, e quando il dolore è più frequente. Uno degli aspetti cruciali è il riconoscimento del dolore, che richiede nelle fasi avanzate l’impiego di scale osservazionali che valutando le espressioni del malato, i gesti, le posture consentono di stimare la presenza del dolore e, sia pure in modo soggettivo da parte dell’operatore, quantificarlo; oppure scale di discomfort che forse riflettono meglio la situazione di disagio e sofferenza del malato, emotivamente diversa, ad esempio, dal dolore artrosico di un paziente cognitivamente integro. Le fasi avanzate della demenza e il tema della terminalità, e delle cure di fine vita hanno incominciato a suscitare interesse nella letteratura scientifica circa 25 anni fa. Ci si è interrogati sul decorso, sul logo dove le persone con demenza muoiono, sul concetto di terminalità, già difficile da definire in generale, e ancor più quando lo si applica alla demenza (quando inizia la fine-vita nella demenza?); sulle cure che questi malati ricevono, e su quelle che dovrebbero ricevere, sia che si tratti di farmaci che di interventi nutrizionali, reidratanti, chirurgici. Si sono definite priorità per i prossimi anni: la necessità di riconoscere la demenza avanzata come malattia terminale; l’individuazione di cure ottimali dei sintomi di distressing; l’accessibilità agli hospice e ai servizi di cure palliative; la riduzione dell’impiego di interventi costosi e aggressivi, che possono essere di scarsa efficacia clinica. Conclusioni. Le conoscenze che abbiamo acquisito nella diagnosi e nella cura della demenza dovrebbero indirizzare il nostro operato futuro nelle seguenti direzioni.
1) Diagnosi precoce e preciso inquadramento nosografico. Gli strumenti oggi in nostro possesso consentono a un numero sempre crescente di medici di fare diagnosi tempestive, a volte molto precoci; questa possibilità accresce la responsabilità del medico, richiamandolo a un uso equilibrato degli strumenti di cui dispone e ad un puntuale e prudente dovere di informazione nei confronti del malato e dei suoi cari; sarà compito di chi decide le politiche sanitarie individuare centri per la diagnostica di diverso livello, a seconda delle tecnologie e delle professionalità coinvolte, capaci di fare un buon uso di tecnologie e farmaci costosi.
2) La prevenzione. E’ ormai chiaro che un deciso intervento su alcune condizioni morbose e su alcuni stili di vita può ridurre in modo significativo i casi di demenza o posticiparne le manifestazioni cliniche. In una logica di salute del singolo e di buon utilizzo delle risorse è doveroso, per gli specialisti e per i medici di medicina generale, individuare situazioni a rischio e governarle.
3) Il dolore, le fasi avanzate della malattia. Se è vero, come si diceva più sopra, che da almeno 25 anni la letteratura scientifica si occupa di questi temi, è altrettanto vero che nel nostro paese la cultura medica deve ancora crescer, prima di poter affermare di essere in grado di fornire cure adeguate a questi malati in queste fasi della malattia. Anche il dibattito sociale deve maturare sensibilità e conoscenze necessarie per affrontare questi temi nel modo adeguato.
4) I servizi, le politiche, i finanziamenti. Alcuni servizi e strutture hanno maturato in questi anni esperienze, competenze, sensibilità ( si parlava ad esempio dei CDA, così come si potrebbe parlare dei nuclei speciali e delle UVA). A fronte di ciò è sconfortante il vuoto politico, che privando il paese delle giuste politiche e dei relativi finanziamenti, mortifica la passione e l’intraprendenza dei singoli. Il problema non è solo italiano, ma la condivisione del problema non deve ridurne la portata. Confidiamo che in tempi brevi politiche intelligenti, rispettose dei vecchi e dei malati più fragili, politiche all’altezza di un paese civile possano colmare il divario tra l’impegno dei singoli e l’assenza di indirizzi nazionali.